Testimonianze: un prete, fra gli altri
Testimoni
Antonio Acciai, un prete, fra gli altri preti della
diocesi genovese. Non davvero dei più conosciuti, o dei più in vista. I molti,
anche in Liguria, hanno saputo della sua vita dai quotidiani, in conseguenza
della sua tragica fine. Nella notte fra il 5 e il 6 aprile. Un incendio ha
covato sordamente in un locale della chiesa parrocchiale, zeppo di carta e di
indumenti raccolti dai giovani per sovvenire finanziariamente agli impegni di
certe iniziative a favore dei marginalizzati. Ha covato sordamente nello spazio
breve fra le mura, ha surriscaldato ad altissime temperature mura ed ambiente,
li ha resi irrespirabili agli abitanti della casa parrochiale, colti nel sonno.
Ad un
piano superiore della casa il babbo e la sorella di don Acciai, riusciti a riparare
su un terrazzino, scamparono alla morte lasciandosi calare lungo le corde lanciate
loro dai primi abitanti del quartiere che avevano udito le grida di aiuto, ed
erano accorsi. Quando i vigili del fuoco poterono penetrare al piano inferiore
don Acciai e la sua mamma erano morti, asfissiati e ustionati. E in fin di
vita il giovane curato, don Orazio Chiapparo, trasportato d'urgenza
all'ospedale, dove morì poco dopo.
Don Acciai. Lo conoscevo da almeno vent'anni, giovane
curato nella parrocchia di San Tommaso, la mia parrocchia d'allora, e di ora. E
con lui l'altro giovane curato, don Ettore Mazzini. Diversamente dotati, e in
piena consonanza fra loro, aperti e disponibili all'ascolto, fu per me una
festosa scoperta imbattermi in due preti che si volessero bene a quel modo. E
non tardai ad accorgermi che altri e altri, nella parrocchia, partecipavano
della loro diffusiva amicizia.
Don Mazzini aveva particolarmente attirato la mia
attenzine per i suoi commenti al Vangelo della Messa, estramemente stringati,
che riuscivano a mettere in evidenza l'essenziale, e tuttavia erano molto alla
portata di tutti, fuori da ogni tono o bagaglio cattedratico. M'accorsi presto
che non presumeva davvero, e neppure si figurava, d'aver trovato il modo (il
linguaggio, come oggi usa dire) di farsi intendere anche dai "piccoli". Era fatto così di dentro —
attento e aperto all'uomo e alla vicenda dell'uomo — e parlava come era fatto.
Fu lui a dirmi, un giorno, con una vena di humour in tutta pulita di rammarico
o di polemica: — Sa, ín Seminario mi hanno preparato benissimo a scontrarmi con
gli albigesi; ma poi, nella vita di tutti i giorni, mi son trovato fra i
marxisti e gli esistenzialisti e i lamenti dei "buoni cattolici" a
riguardo del calare della "pratica religiosa", e cerco di ascoltare
molto e di capire, di capire questi "altri come me" che sono
"gli altri".
Quanto a don Acciai mi rallegrava,
lasciatemi dire, la sua felice fantasia, attenta e pronta a proporre iniziative ai parrocchiani, donne e uomini, adulti e
giovani; iniziative sia pure circoscritte e niente spettacolari, che
portassero a ritrovarsi insieme, a far insieme le cose più varie, da un
incontro di preghiera e di riflessione ad una gita a scopo culturale.
Un "duo" di preti la cui presenza senza
pretese, senza sussiego, senza asme reverenziali, si faceva
"sentire", in parrocchia. Il vecchio parroco, don Marsano, lí seguiva
con affetto, anche se il volto esitante, e con qualche riserva, in un mondo ormai
tanto diverso da quello degli anni della sua ordinazione a sacerdote.
Gli anni passano, e le vocazioni maturano, e si precisano
via via, per tutti. Vennero a maturazione anche per i due. Don Mazzini fu
attratto dal Cristo nel Messico, a migliaia di miglia da Genova. Don Acciai fu
chiamato dal suo vescovo a dar vita a una nuova parrocchia — la parrocchia di
Nostra Signora della Provvidenza — a non più di qualche centinaio di metri da
qui, in un quartiere che andava nascendo, e infittendosi di gente e
di case.
Il parroco di una parrocchia che non c'è ancora arriva
nel quartiere il 1 Agosto 1962. C'è tutto da fare. Manca perfino una cappella
dove poter celebrare la Messa. Si rimbocca le maniche. Ragazzi e giovani e
altri volonterosi lo aiutano: "
(...) praticano uno strano sport: costruiscono blocchetti di cemento per la futura cappella" (da "Vivere e comunicare — Notiziario della Parrocchia N.S. della Provvidenza" — ciclostilato, Gennaio-Febbraio 1973).
Nell'autunno del 1962, con l'aiuto
di un'impresa edile, e con la partecipazione economica e di tempo e di braccia
dei parrocchiani, la cappella cresce a ritmo accelerato.
"22 Dicembre 1962: il nostro Arcivescovo, facendosi largo tra i ragazzi che, ancora con la pala in mano sistemavano il piazzale, entra e benedice la cappella. Le signore, come portafortuna nel loro primo ingresso nella chiesetta, lasceranno l'impronta dei loro tacchetti nel cemento ancora fresco"(dal Notiziario citato).
Le relazioni si infittiscono, nel quartiere. La gente
vien facendo esperienza che il dialogo, parlato e vissuto nelle opere
realizzate in comune, è indispensabile all'avvio di rapporti davvero umani: "No, caro signore: creda non è utile in
nessun modo cercare di nascondere la realtà; non ci si può permettere di
ignorare le opinioni e le idee degli altri, anche se a volte tornano scomode e
irritanti".
"Saper ascoltare, aprire il cuore ad un dialogo senza
sottintesi e riserve mentali,
offrire con umiltà il proprio contributo, sono condizioni essenziali per giungereinsieme alla VERITÀ. Ed è il modo migliore"(da "Dialogo missionario", altro ciclostilato della Parrocchia — Settembre-Ottobre 1972).
Un dialogo parlato e vissuto che porta gli
abitanti dei quartiere — per iniziativa dei parrocchiani, ma anche i non
credenti partecipano e collaborano — a prendere a cuore anche certe esigenze
civiche del quartiere, a raccogliere fondi per soddisfarle, a lavorare anche
di braccia nel "tempo libero", ad interessare le autorità ed a
sollecitarle ad agire, in questi casi in cui l'iniziativa e l'operosità della
base non è sufficiente alla realizzazioni.
Nasce nel quartiere una
scuola media serale, per gli adulti ai quali interessa ottenere un diploma. Si
risolvono i problemi per una funzionale sistemazione delle scuole elementari,
per la istituzione di un asilo, di una scuola media e di un doposcuola per i
ragazzi delle medie. Poiché si verificano ritardi, con conseguenze anche mortali,
nel soccorso a bambini e ad adulti, il quartiere provvede ad organizzare í
"Volontari del Soccorso" ed a fornirli di due autoambulanze.
Si ottiene una migliore sistemazione della rete stradale,
del servizio degli autobus, del villaggio dei marittimi. E il prosciugamento di
un inutile e pericoloso laghetto incustodito dove due o tre ragazzi hanno
trovato la morte, andandoci con altri a giocare. Autoambulanze e automezzi dei
Volantari del Soccorso partono per Firenze e per la valle padana, quando le
alluvioni imperversano. Frattanto, mentre si dà il via alla costruzione della
nuova scuola, si trova il modo di pensare ai missionari che transitano a Genova
per imbarcarsi:
"Suore e sacerdoti a Genova con un mucchio di pratiche doganali da espletare per l'imbarco, con numerosi pacchi e tanta nostalgia per la loro ultima giornata in patria ci telefonano ... allora il cuore di via Vesuvio comincia a battere più intensamente. Occorre trovare il camioncino per portare in dogana i tanti bagagli, dare una mano destreggiandosi fra i vari "camalli" (che ormai ci sopportano con benevolenza) e impiegati, trovare un alloggio per parenti e amici che hanno accompagnato í parenti, chiedere alla Società Italia i biglietti di accesso al terrazzo o sulla nave, per i conoscenti, per l'ultimo saluto, e infine preparare una serata serena, l'ultima per loro in Italia"(dal ciclostilato "Vivere e comunicare" - Settembre 1972).
Il lavoro è enormemente cresciuto. Il vescovo provvede ad
inviare un aiuto al parroco. Un curato giovane d'anni, don Orazio Chiapparo.
Giovane, ma è quello che ci voleva. Se la intende bene con i giovani, che fanno
ressa e intendono impegnarsi sul serio. È anche appassionato di musica. E anche
questo ci voleva. L'amicizia e la comunione, in una comunità, amano esprimersi
anche nel canto. E la comunità ha ora i suoi canti, nati lí, fra la gente, don
Orazio attento e a tradurre in sequenze musicali le aspirazioni e le speranze
della gente.
Sono passati dieci anni, dagli inizi. Una rivista chiede
a don Acciai il racconto della sua esperienza. Rileggo il racconto,
ripubblicato in uno dei ciclostilati; e lascio a lui la parola, scegliendo nel
testo:
"La povertà dei mezzi, accettata e amata, ha voluto essere una componente della nostra attività, in un ambiente molto sofferente, perché in buona parte formato da persone di recente immigrazione, con problemi gravi di adattamento e con frequenti spostamenti (...)."Il fatto di essere nati come "parrocchia della strada", senza locali, ci ha portato, in molte circostanze, a creare la comunità sulle piazze, nei bar, sui prati. Nel pensiero che "comunità parrocchiale" più che questione di locali è questione di "stile", di "animo", si è cercato di fare circolare idee, di fare catene di inviti, di far sentire e quasi vedere plasticamente che la salvezza viene da Dio, è annunziata dai figli della famiglia di Dio (..)"
Ha ben
presente di svolgere, con gli altri, come prete, certune di quelle attività che
si dicono di "supplenza", nella vita della Chiesa. Ed è sensibile
alle critiche che gli vengono mosse da questo o da quello, quasi sempre per
opposte religioni. Ma non si rifiuta, ed è attento e non cedere a certe
ricorrenti tentazioni: — Vedi — mi diceva un giorno, son pochi mesi, ci accade
per caso di passare mezz'ora insieme — come si fa ad opporsi "a
priori", in astratto, ad ogni iniziativa di "supplenza"? quando
nessuno si muove, e le magagne continuano? Mi pare soltanto chebisogna stare attenti a non
servirsi delle "supplenze" p er
acquistare del prestigio, o del potere.
E perciò era molto persuaso della necessità vitale che i laici si muovano, che assumano le loro responsabilità anche di evangelizzazione, calandosi nel vivo della vita e delle esigenze del quartiere:
"La comunità parrocchiale, soprattutto attraverso le ACLI e partecipando a tutti i vari comitati, ha vissuto i problemi del quartiere (...) perché il nostro quartiere, di recentissima costruzione, non sia solo un "dormitorio" ed un "quartiere d'angoscia", ma un ambiente il più umano e confortevole possibile (...).
"Questi tocchi mettono in evidenza l'anima tormentata di questa zona, fatta dí tante luce e tante ombre, di tanta contestazione e di tanti fermenti postivi. Ma ogni giorno aumenta la necessità che l'evangelizzazione sia opera particolarmente dei laici e che siano loro a promuovere raduni, guidare discussioni, assumere sempre nuove responsabilità per la continuazione dell'attività comunitaria. Ci si deve continuamente sforzare di essere "segno", realizzando quanto Cristo ha detto: "amandovi, riconosceranno che siete miei discepoli!". Possibilmente tutti coinvolti da questa idea: essere non spettatori, ma attori"(dal ciclostilato "Vivere e camunicare" — Gennaio-Febbraio 1973).
Una presenza del tutto disarmata, la sua,
attentissima al nuovo, e pronto ad accoglierlo
con "la semplicità delle colombe". Una semplicità che allarmava ed inquietava i sempre timorosi del
"nuovo": "Gli volevano tutti bene perché sapevano che nel suo
grande cuore c'era posto per tutti. Qualche volta la sua esuberanza lo portava
perfino al limite del discutibile, dal meno opportuno", dice di lui un cronista
che pure tesse il suo elogio nel quotidiano cattolico della curia genovese, il
giorno dopo la sua morte ("Il
Cittadino", 6 aprile 1974, p. 5).
E, d'altra parte, una presenza che non accontenta,
che anzi scontenta i temperamenti portati alla novità "gridata dai
tetti", e che hanno molta fiducia nella contestazione testa contro testa,
costi quello che costi. Persuasi, essi pure, che la contestazione così
condotta sia inevitabile, in certe situazioni, per non impedire il germinare
del "nuovo" nella Chiesa. Come è andato accadendo, per esempio, ai
cattolici della Comunità di Oregina, ormai staccati dalla loro parrocchia, che
confina con la "Parrocchia-Comunità" della Provvidenza. Annotano con
tristezza, i cattolici di quest'ultima, in uno dei loro ciclostilati:
"21 Settembre 1971. Il caso "OREGINA", che é parrocchia con noi confinante, fa sempre più parlare di sé."Come comunità, noi non interveniamo, ci limitiamo a discutere tra noi e soprattutto preghiamo per loro nella Messa. L'invocazione: "perché la ricerca di queste nostri fratelli sia guidata dallo Spirito Santo, preghiamo" è ricorrente fra noi."Chi invece va avanti ma, a titolo personale, è il nostro parroco, animato da spirito di dialogo nella ricerca di una soluzione buona per la pastorale di quella parrocchia."Il "dialogo" si fa però spesso "polemica" e i giornalisti ci gongolano! e sono contenti quando possono scrivere ..."Questi fatti sono anche la nostra passione, con tutti i Cristiani, partendo dal Vangelo: "Lo Spirito soffia dove vuole" (Giov. 3,8), nessuno pensa che sia solo legato a "strutture", a leggi e leggine, commissioni o sottocommissioni"; ma queste cose si possono dire e praticare in tanti modi. Quello scelto da questi nostri fratelli è un modo che ci lascia perplessi".(dal ciclostilato " Vivere e comunicare" — Gennaio-Febbraio 1973).
Lui,
don Acciai, il prete che credeva alla possibilità di comunicare e di entrare in
comunione, attraverso il dialogo, soffriva per la riservatezza timorata e
timorosa degli uni, e per il comportamento a tendenza esclusivistica degli
altri. Ma anche nei momenti più duri, e di fronte ai rifiuti più recisi, ce la
metteva tutta per non drammatizzare le situazioni oltre l'indispensabile, e
per continuare a tessere i rapporti. Non senza una vena di humor a riguardo di
se stesso e dei propri limiti. E tornava a rimboccarsi le maniche fra la gente,
"mangiato", lasciatemi dire, dalla sua gente, che sentiva in
profondo, e diffusamente, come davvero nel suo cuore disarmato e pronto a "dare
la vita" ci fosse "posto per tutti".
Lo si è visto nei giorni
dopo la tragica notte, attorno alle tre bare — lui, la sua mamma, il giovane
curato — attorniato da una folla continua di gente che si sentiva in comunione
nella loro presenza invisibile.
Una
quantità di gente, e di preti, venuti anche da fuori della parrocchia. Anche i
dubitanti timorati e timorosi di ieri. E, alle esequie, la davvero commossa
omelia del suo Arcivescovo: "Per questa sua semplicità dell'animo,
incontestabile, egli fu in grado di capire la sua gente e voi foste in grado di
capire lui".
La sera
avanti le esequie, ad una Messa concelebrata da altri sacerdoti, nel moto della
gente attorno alle tre bare, m'accadde di trovarmi a tu per tu con Agostino, il
francescano iniziale animatore della Comunità di Oregina. Aveva gli occhi
lucidi. Ci demmo la mano. Ci si sentiva in comunione, le parole fatte
superflue. Quella semplicità dell'animo era fatta presenza vivente. Il seme
della semplicità che "muore" nel solco di una ventura atroce fino
all'assurdo, e germina il "nuovo" nel turbinio delle contraddizioni
di oggi.
Nando Fabro
"Il Gallo" maggio 1974