Testimonianze: c'è ancora chi ricorda don Acciai
Testimoni
C'È ANCORA CHI RICORDA DON
ACCIAI
Don Acciai, don Orazio Chiapparo, la madre di don Acciai
sono morti il il 5 aprile 1974, nell'incendio divampato, forse molti lo ricordano ancora, nella chiesa
di Via Vesuvio, Nostra Signora della Provvidenza.
Anche quest'anno, il 5 aprile nella parrocchia che era stata di don Acciai e di don
Orazio si è celebrata una messa di suffragio, partecipatissima. Qualcuno avrà visto i
manifesti stampati per l'occasione, con riportate una frase di don Acciai e alcune
significative parole di N. Fabbro: "E tornava a rimboccarsi le maniche fra le gente,
"mangiato", lasciatemi dire, dalla sua gente, che sentiva in profondo, e
diffusamente, come davvero nel suo cuore disarmato e
pronto a "dare la vita" ci fosse posto per tutti". La messa è
stata concelebrata da sei sacerdoti, tutti in qualche modo legati a don Acciai;
la partecipazione della gente vivissima: la chiesa era piena, anzi, come ci è
stato detto, forse ancora di più che negli anni passati. La figura e il lavoro
di don Acciai sono stati ricordati da don Marco Granara,
l'attuale parroco di N.S. della Provvidenza, e da un breve intervento di don Ferrera.
Al di
là di questo episodio, ci chiediamo: che cosa è rimasto nel "popolo di
Dio" che è
in via Vesuvio (e dintorni) degli ideali, delle iniziative concrete avviate in
quei dodici
anni di intenso servizio (dal 1962 al 1974) dal "prete che correva sulle
grondaie"? (l'espressione è del cardinale Siri: "la sua semplicità fu
tale che gli permise di correre sulle grondaie senza mai cadere").
In quei dodici anni
nessuno si era mai preoccupato di dare alle iniziative che via via
nascevano, sempre sulla base di esigenze concrete, una struttura stabile, che
permettesse
di continuarle anche quando il problema che le aveva stimolate veniva meno, o
le persone stesse che ne erano state promotrici venissero a mancare. Alla base di
questo metodo stava una convinzione ben precisa: quella spontaneità che vuol dire
da un lato disponibilità attenta a cogliere le varie situazione e pronta a
mettersi al servizio. Dall'altro, saper riconoscere quando un servizio reso
cessava di essere necessario alla comunità, mentre nascevano magari altre
esigenze. Un esempio chiaro di questo atteggiamento verso le situazioni fu il
doposcuola che aiutava ad ottenere il diploma di scuola media inferiore a chi
non l'aveva (allora erano casi più frequenti di oggi); attività che si
interruppe appena fu varata la legge delle "centocinquanta ore": fino
a quel momento si era come "supplito" a una mancanza delle istituzioni,
ma al cessare di questo stato di cose era giusto tirarsi indietro. Diceva uno dei collaboratori di don Acciai: "Ogni
cosa nasceva e finiva in corrispondenza dell'esigenza concreta del
momento. Nessuno pensava di strumentalizzare i servizi resi alla gente ai fini
dell'evangelizzazione; si cercava di affrontare i problemi insieme e quando questi erano risolti lì finiva il
nostro lavoro". Del resto "i momenti di evangelizzazione c'erano:
la messa, e quelle serate sul prato vicino alla chiesa, il sabato: si
annunciava il Vangelo, si cantava accompagnati dalla chitarra; e la lettura del Vangelo nelle famiglie ...".
Che cosa è rimasto? Come è continuata questa
esperienza in fondo abbastanza straordinaria?
Lo chiedo a quattro o
cinque fra le persone più vicine a don Acciai, le risposte
sono
concordi: appena morti don Acciai e don Chiapparo, che era arrivato solo nel
'73 in via Vesuvio, non fu difficile, proprio per questa mancanza di strutture,
interrompere bruscamente il cammino intrapreso. Ben presto la parrocchia è
stata organizzata secondo un piano radicalmente diverso: con don Acciai era la
partecipazione di tutti a tutto (a ogni problema concreto e umano che nasceva),
ora si punta alla preparazione molto qualificata di gruppi più ristretti.
Finché c'era don Acciai, era un po' lui il perno di tutto, il principale punto
di riferimento per la gente. Dopo la sua morte ci si è trovati come smarriti. E
non ha perso l'occasione chi vedeva con diffidenza il "disordine", lo
spontaneismo di tutta quella esperienza, per ridare alla parrocchia la sua
atmosfera di istituzione più che solida ma forse, per quanto si faccia,
inevitabilmente più chiusa ...
Mi
accompagna alla fermata dell'autobus uno dei miei "intervistati",
proprio davanti alle "baracche" (siamo in via Napoli; la prima
chiesa di don Acciai: un capannone più appunto due o tre baracche ora
abbandonate; la chiesa in via Vesuvio fu costruita solo più tardi. Qualcuno
dice: forse non ce n'era nemmeno bisogno, ci bastavano le baracche ...). Mi dice ancora:
"Qui in ogni casa la gente ha un ritratto di don Acciai; magari non sono
credenti, ma hanno conosciuto e stimato l'uomo, la sua testimonianza trasparente,
autentica". Guardo i brutti casermoni di via Poks, poli e via Vesuvio,
anonimi, grigi. Riesco solo a pensare; se il seme non muore
Chissà, forse da questi anni di silenzio il ricordo
di quell'esperienza che sembrerebbe irripetibile germoglierà, darà alla Chiesa
genovese, anch'essa spesso cosi anonima e grigia, un po' di vita, di speranza nuova. Ne abbiamo bisogno.
"Cristiani a
Genova"
maggio 1942