Testimonianze: Sapeva amare e aiutare i poveri
Testimoni
SAPEVA
AMARE E AIUTARE I POVERI
di Pietro Ferro
Era una fredda sera di
gennaio, quattro anni fa, Don Acciai, il giorno prima, aveva telefonato al giornale: "Mandate un cronista nella
nostra chiesa, parleremo di quei tre poveri bambini". I tre poveri bambini
erano stati uccisi dall'ossido di carbonio nella loro abitazione di via
Vesuvio. La città era rimasta sconvolta. Fu una morte atroce, l'ossido di
carbonio carpì i bambini mentre giocavano. Colpa dello scaldabagno e dello
scarico "irregolare". Don Acciai, il parroco del quartiere, organizzò
un'assemblea in chiesa, nella sua chiesa. Invitò autorità, tecnici, cittadini.
Disse, quella sera, poche parole: "Ci siamo riuniti qui e crediamo di non
andare contro la legge della Chiesa. Siamo qui con tante idee e con tante fedi.
La Chiesa è un luogo di preghiera, ma non la si profana se invece di pregare,
discutiamo. Cerchiamo il dialogo. Noi per quello che è accaduto non vogliamo
sparare su nessuno. Quattro anni fa, nel nostro quartiere, l'ossido di carbonio
uccise una suora. Potevamo salvarla se ci fosse stata un'autoambulanza.
Protestammo. Ora l'ambulanza nel quartiere l'abbiamo. Se noi, allora, avessimo
fatto di più, oggi non saremmo qui a piangere i tre bambini".
Fu una delle battaglie di don Acciai, un omone con
il viso da bambino. Un timido. Era arrivato nel quartiere quando la chiesa non
esisteva. Si costruivano tante case, arrivavano molti emigranti. Per la chiesa
c'era un progetto, è vero, ma don Acciai, con i giovani della zona, rimise a
nuovo una baracca. Vi celebrava la messa e spiegava il Vangelo. Poi tutto il
giorno in mezzo alla gente, in un quartiere cresciuto in fretta con mille
problemi, con non pochi poveri da aiutare. E "battaglie" da
sostenere. "Prete d'assalto?", gli chiedevano. "No, sono un
prete", rispondeva. Lui non era un prete moderno, si toglieva solo la
tonaca quando c'era da caricare mobili da trasportare a una famiglia che ne
aveva bisogno. Rimase nella baracca fino al '69 e poi si trasferì in quel
"caseggiato" che è la chiesa di Nostra Signora della Provvidenza.
Quella sera dell'assemblea aveva poco di chiesa. Qualcosa di freddo, di di- •
sadorno, di poco accogliente. È rimasta così. Lo voleva lui, il parroco.
C'erano altre cose ben più importanti da fare nel quartiere. Tante altre
battaglie da sostenere. Si battè per il Lagaccio, quello stagno dove i bambini
morivano giocando. Lui, prete, andava a benedire le spoglie dei piccini e
protestava. "È un miracolo — diceva — che i morti siano stati finora così
pochi. Questi ragazzi sono ogni giorno sul filo della morte". La
"battaglia del Lagaccio" fu vinta grazie anche a lui, il parroco timido,
l'omone con il viso da bambino. Ora il lago è sparito. Vi costruiranno impianti
sportivi.
Don Acciai, nella sua
semplicità, difendeva sempre la Chiesa. Nel periodo della "Comunità di
Oregina" di padre Zerbinati lui andava alle assemblee dei contestatori.
Quelli di ()regina volevano portare il discorso sociale nell'interno della
Chiesa. Criticavano Siri, le gerarchie ecclesiastiche, il Concordato.
Celebravano matrimoni con il rito evangelico puro. Don Acciai, che certamente
non era insensibile alle innovazioni, era per certi versi in polemica con
quelli di Oregina. Troppa propaganda, troppo chiasso. Per lui bisognava
lavorare concretamente, in mezzo alla gente nell'interno del quartiere.
Ed ecco il prete diverso. Accetta i giovani, dice si alla messa con i canti
nuovi, gli strumenti musicali. Organizza assemblee. Parla di dare la casa a chi
non l'ha, di disoccupazione, di cose da fare nel quartiere, di ingiustizie. I giovani
e i non più giovani lo seguono. Discutono,
preparano un progetto per una nuova strada. Occorre una biblioteca, e don
Acciai e i suoi amici trovano i libri. Riescono persino a pubblicare un
giornalino del quartiere. Una specie di bollettino parrocchiale dove si scrive
dei problemi dei nostri tempi, delle cose da fare nella zona, dove si polemizza
anche con i giornali cittadini.
Ma più di tutto ci sono i poveri. Ecco don Acciai
togliersi la tonaca. Affitta o riesce ad ottenere un paio di locali e vi
immagazzina mobili donati alla chiesa. "Servono — dice — possono rendere meno
difficile la vita di qualcuno". E i mobili li portava lui. Ma che nessuno
lo sapesse. Non voleva che si parlasse di lui. "Dite — pregava — che siamo
noi, noi uomini, noi cittadini, noi cristiani".
È morto nella sua chiesa disadorna, fredda, nel suo
"caseggiato". Vi aveva fatto scrivere: "Questa è la casa di
Gesù, a chi entra da questa porta non chiedo se abbia un nome, ma se abbia un
dolore. Tutto quello che è qui è vostro, tutto quello che è vostro è qui, tutto
questo è comunità cristiana". Era il suo testamento spirituale, la sua
"idea" di Chiesa.
da Secolo XIX del 6/4/74 — Genova