Testimonianze: don Acciai: un prete di frontiera
Testimoni
DON
ACCIAI: UN PRETE DI FRONTIERA
Divo Gori
Massiccio, rosso di capelli, con mani come
badili, aveva già nell'aspetto tutto il vigore campagnolo della sua origine
aretina. Ma un'alternativa alla vita che si era scelto sarebbe improbabile: non
poteva essere che un prete, un prete che aveva messo al servizio del suo
Principale anche la propria forza fisica. Così dicono di lui, di don Antonio
Acciai, un tale dal cognome fatto apposta per suscitare immediate denotazioni
d'impiego, di tenacia, di sfida alla fatica.
Era arrivato in via Vesuvio nel
1960 quando, dove sono ora i palazzi e la chiesa, c'era una scarpata brulla.
La
sua chiesa fu una baracca, una specie di posto di combattimento per una
battaglia da combattere a colpi di carità, di zelo, di passione autenticamente
missionaria. Allora 14 anni fa, la città cercava disordinatamente bocconi di
terra su quelle pendici e cresceva senza ordine, accogliendo classi sociali a
reddito non elevato, numerose famiglie di martittimi, immigrati. Una frontiera,
appunto, per un prete di coraggio come lui, che si era fatto le ossa a
Montesignano, nella Val Bisagno e poi a San Tommaso. C'era tutto da fare e
tutto da capire, dall'ambiente ai problemi sociali, dal gruppo con la sua
composizione eterogenea, all'uomo, dentro il quale, con umiltà, don Antonio si
era subito calato donando solidarietà e amore cristiano. Anche quelli che con
i preti e l'incenso non avevano confidenza avevano capito di trovarsi di
fronte ad un interlocutore amico; avevano avvertito il suo profondo rispetto
per le loro idee, di qualunque versante fossero. "La sua chiesa la costruì prima che venissero tirati su i
muri", dicono. Aveva, infatti, il senso preciso del significato di
"comunità", era sacerdote, fratello, amico, buon vicino di casa, nato
personaggio per dono di natura, ma privo di qualsiasi alterigia e costantemente alla
ricerca di un'occasione per dare un "segno" alla propria esistenza.
Ne parlano tutti con le lacrime agli occhi, ma con una certa durezza nella
voce, come per rispetto proprio a lui.
Non c'è capitolo della storia recente dí questo lembo di periferia nel quale
don Antonio non abbia detto la sua. Ci furono (e ci sono) problemi di edilizia
abitativa, problemi sociali, situazioni al limite della legalità. Vi si buttò
dentro sempre vigorosamente, affiancato da un gruppo sempre più compatto di persone, di giovani, di uomini che si riconobbero immediatamente in luí.
Qualche anno fa ci fu nella stessa zona un altro caso di "morte bianca"
per una fuga di gas.
Fra le vittime, tre bambini. Don Antonio fece
assemblea in chiesa, chiamando la gente con quel suo campanile da Far West fatto di due travi verticali e una campanella
da oratorio. Tutta la dignità della
veste che portava restava intatta e si accresceva quando tirava due calci a un pallone con i ragazzi o si
rimboccava le maniche per caricarsi mobili sulle spalle. Aveva
organizzato un'impresa-trasporti che spesso aveva, come unico veicolo, le sue
spalle. C'era gente che aveva roba vecchia di cui voleva disfarsi e gente che di mobilia aveva
urgente bisogno. Don Antonio provvedeva a spostare il bene sfruttabile e a riempire un vuoto.
Prete anche a tempo pieno, come la sua chiesa che
restava sempre aperta fino a tarda notte. Tanto lui dormiva poco, la sua
finestra rimaneva accesa fino a tardi, segnale della sua costante
disponibilità, senza discriminazioni. Del resto, per se stesso non aveva mai
tempo, nemmeno quando in un bar si fermava un momento a prendere un caffè con la gente del vicinato e
magari a discutere. La contestazione di Oregina lo trovò disposto al dialogo
con la dissidenza, e cercò di parlare per capire più che per farsi capire.
La sua non era la chiesa delle strutture, ma la
limpidezza della sua azione gli ha sempre procurato particolare considerazione
anche nelle gerarchie ecclesiastiche. Difficile non credere ad un prete di
fatica come lui, uno che del peccato parlava poco esplorando piuttosto i motivi
umani dell'errore: come la sofferenza, l'indigenza, l'ingiustizia. Un paio
d'anni fa morì un giovane del suo cerchio, un ragazzo di 23 anni, che suonava
l'oboe. Piegandosi don Antonio disse che forse chi aveva già dato un
significato alla propria esistenza poteva andarsene e pianse, da uomo,
pregando.
Se ne sentiva parlare stamane come in una moltiplicazione della sua
presenza, in un senso particolare non riferibile dal povero strumento del
cronista. Quel suo credere accoratamente nel pluralismo aveva riprova nel
dramma, in quelli che con il suo Principale non hanno alcuna confidenza e
fiducia e che tuttavia stamani lo piangevano, con gli occhi asciutti e la
bocca chiusa.
"Corriere mercantile" Genova 5 aprile 1974, p. 5