Il lutto: L'inchiesta sulle cause - Don Acciai - un prete, una comunità, un quartiere

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Don A. Acciai - un prete, una comunità, un quartiere
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Il lutto: L'inchiesta sulle cause

Il lutto
Riaperta l'inchiesta sulle cause dell'incendio
Toccherà ora al magistrato vagliare la posizione della persona in carcere, accusata da un rapporto dei carabinieri di palazzo di Giustizia, di essere responsabile del tragico rogo di via Vesuvio che costò la vita a Don Acciai, a sua madre ed al giovane viceparroco don Orazio Chiapparo. Un rapporto lungo, minuzioso, dettagliato che si è tradotto in più di otto mesi di lavoro per sei investigatori. Una documentazione sulla quale, abbastanza incomprensibilmente, è calata una cortina di riserbo assoluto. Il magistrato deve ancora esaminare prove ed elementi che hanno portato alla conclusione di colpevolezza. I carabinieri tacciono tutti i particolari e i dettagli dei difficili accertamenti che si sono svolti a quasi dieci anni di distanza dall'episodio. Ovviamente, del nome della persona indicata come responsabile, non si parla proprio.
Si sa soltanto che è già in carcere, si sa che sul suo conto le indagini duravano da tempo, si intuisce che i sospetti con il passare dei mesi, hanno acquistato sempre più concretezza. Una concretezza che sarebbe avvalorata da alcune testimonianze, che troverebbe riscontri in dati di fatti certi, tali comunque da giungere ad una ragionevole conclusione di colpevolezza.
Da cosa nascono queste accuse e su cosa si sono basate le indagini? In mancanza di conferme da parte dei carabinieri del nucleo di polizia giudiziaria ("Non possiamo dire niente senza l'autorizzazione del magistrato") non rimane che tentare una ricostruzione dell'episodio sulla base di quegli elementi già conosciuti.
Il rogo della canonica di "Nostra signora della Provvidenza" in via Vesuvio è del 5 aprile 1974. Muoiono soffocati dal fumo e carbonizzati nell'incendio don Antonio Acciai, 50 anni, sua madre, Emma Bigiarini, 74 anni, e il vice parroco don Orazio Chiapparo, 26 anni. Grazie all'intervento di alcuni volontari riescono a salvarsi soltanto il padre e la sorella di don Acciai. Le testimonianze dei superstiti non sono di grande aiuto alla prima inchieste sulle possibili cause dell'incendio. Emerge solo un particolare che sembra avere la sua importanza; quando Giuseppe Acciai, 77 anni, padre del parroco, tentò di accendere la luce si accorse che l'impianto elettrico non funzionava più. C'era stato un corto circito in precedenza? La tesi sempra abbastanza convincente. Una disgrazia, quindi, la solita tragica fatalità.
Poi passano gli anni, anche il ricordo di uno dei fatti che sconvolse un intero quartiere si affievolisce. Fino a quando non emerge "qualcosa" di nuovo. Chi dice una testimonianza, chi una "confidenza" raccolta fra carcerati, chi parla invece di documento compromettente. Rimane un fatto: quale che sia la spinta ai nuovi accertamenti deve essere decisamente credibile se succede, come succede, che il caso venga riaperto a distanza di quasi un decennio. È altrettanto evidente che in tutti questi anni molte prove, molte memorie possono essersi cancellate. Il lavoro di ricostruzione quindi diventa difficile, troppo difficile per essere tentato senza elementi concreti, più che concreti.
Alle voci iniziali se ne aggiungono altre ancora più inquietanti di minacce subite da don Acciai, di qualcuno che aveva interesse a "tappargli la bocca". Si tratta di individuare in questi filoni, resi abbastanza labili dal tempo, la pista giusta. E si dice anche di un banalissimo tentativo di furto conclusosi in tragedia. In altre parole un ladro si sarebbe introdotto in sacrestia, quindi in archivio. Avrebbe improvvisato una torcia arrotolando un giornale e le fiamme si sarebbero propagate immediatamente trovando facile esca negli arredi e nelle carte dell'archivio parrocchiale.
Ma se fosse valida questa tesi avrebbe senso, soprattutto a distanza di tempo, un riserbo così totale ed assoluto da parte degli investigatori? Sarebbe logico interpretare le lunghe indagini e i risultati conclusivi sui quali nesuno si pronuncia come una disgrazia o un fatto colposo?
Evidentemente no. Quindi non rimane che l'ipotesi di un episodio doloso, voluto con determinazione da chi Io ha compiuto. Riaffiorano quelle oscure minacce, quel desiderio di vendetta che, con ogni probabilità, trova spiegazione nel lungo rapporto dei carabinieri. E trova anche un nome ed un cognome per il responsabile.
"Secolo XIX" del 4 Febbraio 1982
R.S.

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